DOLCI ILLUSIONI A TRIESTE
Un inizio anno in grande stile per il Rossetti.
Si parte con una prima assoluta per il nostro paese: Christmas with the Rat Pack.
Scelto come titolo di apertura del 2013 e andato in scena dal 3 al 6 gennaio, lo spettacolo (in scena per 8 stagioni nei teatri del West End londinese) giunge a Trieste, in esclusiva per l’Italia, dopo le fortunate repliche natalizie al Museum Quartier di Vienna.
Una sfida decisamente ambiziosa (e rischiosa) per I produttori Paul Walden e Derek Nicol; riportare in vita quel “branco di ratti” formato da Frank Sinatra, Sammy Davis Jr e Dean Martin, cercare di ricrearne (almeno in parte) l’energia e la perfetta alchimia, soddisfare fans sempre pronti a storcere il naso, e far amare uno spettacolo vecchio di mezzo secolo al pubblico di oggi.
Spettacolo natalizio (ma non troppo), un po’ musical, un po’ teatro, un po’ tribute band; ma soprattutto una gigantesca illusione, un sogno in cui il pubblico deve farsi trascinare e in cui deve voler credere.
Meglio quindi guardarlo dalla galleria, o dal fondo della platea, magari senza occhiali, per potersi godere fino in fondo l’illusione.
Orchestrina swing biancovestita sotto la guida del giovane ed energico direttore-pianista Dominic Barlow, voci splendide, gambe in bella vista e deliziosa leggerezza e civetteria anni ‘60 per il magnifico terzetto delle Burelli Sisters (Frankie Jenna Sibthorp, Leanne Howell. Michelle White) che, in abiti da sera o (s)vestite di paillettes (per non parlare dei mini vestitini da babbo natale che non si dimenticano facilmente) interagiscono con i tre leading men nelle scenette e nei brani musicali.
E infine i tre protagonisti, assolutamente superbi. La voce di Stephen Triffitt non sarà quella di Sinatra (del resto, come potrebbe esserlo?), ma la sua immedesimazione nel personaggio, dalle movenze all’atteggiamento, sino al fraseggio musicale, è totale (complice anche una somiglianza fisica davvero sorprendente); Jay Marsh è un Davis Jr un po’ teatrale ma di grande effetto (incarnando la vitalità giovanile e la versatilità un po’ frustrata di Sammy), mentre il Mark Adams pare a volte dover contenere la propria voce (sicuramente la migliore della serata) e la propria personalità per aderire al personaggio di Martin (che, tra atteggiamenti da latin lover e performance alcooliche ottiene ben presto i favori del pubblico).
Battute e tempi scenici sono, naturalmente, quelli di mezzo secolo fa (dialoghi e situazioni si basano interamente sulle registrazioni dei veri spettacoli dei tre artisti) disorientando all’inizio lo spettatore moderno (ma è proprio questo il bello) e alcune situazioni sembrano costruite a tavolino, senza la sincerità e la verve che avevano in mano al terzetto originale (cosa del resto insperabile), ma tutto sta nel lasciarsi trasportare in quel mondo. E, grazie alle performance degli interpreti, alle scenografie di Sean Cavanagh e alle frizzanti coreografie di Mitch Sebastian, la cosa risulta straordinariamente facile.
Così, tra battute su neri, omosessualità e mafia, litri di alcool (finto) e sigarette (vere), i protagonisti danno vita a performance musicali e scenette indimenticabili, lasciando che temi e caratteri emergano con naturalezza e senza forzature teatrali.
E alla fine poco importa se Triffitt non ha il timbro di The Voice, o se i gesti di Marsh sono troppo costruiti, l’illusione un po’ alla volta diventa completa.
Non una prima, bensì uno spettacolo ormai ben noto e apprezzato dal pubblico italiano, è invece Last tango in Berlin, il recital di Ute Lemper che da quattro anni riscuote successi nei teatri di tutto il mondo e che finalmente (è il caso di dirlo) arriva anche a Trieste (l'8 gennaio, per una sola serata, che registra un tutto esaurito).
“From Brecht in Berlin to the Bars of Buenos Aires” recita il sottotitolo. Sin da subito, quindi, appare chiaro che il viaggio musicale e culturale in cui l’artista tedesca intende condurci sarà alquanto inusuale. Due realtà apparentemente opposte, due mondi estranei, tra i quali la cantante tesse un filo conduttore a volte nitido, altre volte contorto e quasi invisibile. Brani in ordine apparentemente casuale, momenti di teatro sapientemente preparati e altri del tutto improvvisati (chi ha già visto lo spettacolo, si accorgerà che la scaletta muta di giorno in giorno), alternanza di canto, prosa, cabaret. La cantante tedesca gioca con i generi, con le regole, con le lingue (nel parlato alterna e spesso fonde tedesco, francese, inglese e spagnolo, cui aggiunge, per l’occasione, accenni di italiano), dando vita ad una galleria di personaggi senza nome che nascono fluidamente l’uno dall’altro, e tra i quali riappare Ute, a raccontarsi e a raccontare le loro storie.
Unici oggetti scenici, uno sgabello, un cappello, un boa di piume. E lei, in un abito nero da sirena, in grado di incantare con la sua voce, duttile e poliedrica come poche (con una capacità di mutare tecnica, stile ed espressività sino al limite del virtuosismo). Accompagnata al pianoforte da Vana Gierig e al bandoneon da Marcelo Nisinman, passa disinvoltamente dalla Germania di Weill e Hollaender (la sua Ich bin vom Kopft bis fuss aut liebe eingestellt è inarrivabile) alla Francia Bel (tra le altre, una disperata e vigorosa dans le port d’Amsterdam) fino in quella seducente e tragica Buenos Aires dipinta così vividamente dalle note di Piazzolla.
Dopo gli applausi di rito, spunta Amarcord di Nino Rota, come omaggio all‘Italia, mentre agli appassionati di musical riserva un lungo medley in cui spuntano estratti da Cabaret e Chicago, per concludere lo spettacolo con una Ne me quitte pas assolutamente da brividi.
Enrico Comar
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