LADY DAY, OMAGGIO ALLA REGINA

Trieste, 30 ottobre 2003 - Toh, chi si rivede: Massimo Romeo Piparo. L'avevo conosciuto due anni fa in occasione della "Febbre del sabato sera", stavolta lo incrocio quasi per caso nel foyer del "Rossetti" durante l'intervallo della sua ultima fatica, Lady Day, che ha scritto assieme a Amii Stewart. La tentazione è forte, anche se vado ad interrompere un'altra conversazione: Piparo, non ci avevi promesso Cats ?
"Eh!" Risponde sorpreso il regista, e sorride amaramente. "Sai com'è, è una questione di diritti... e poi se non mi lasciano farlo come voglio io, con regia e coreografie diverse, non se ne parla neppure". Ma come, un allestimento diverso per Cats? E i puristi cosa direbbero? "Mah, i puristi possono andare a vederlo in Inghilterra. Non ha senso, secondo me, rifare lo stesso allestimento. Per cui..." Ok, capito. Ma non avevi parlato anche di un possibile Jekyll & Hyde ? "Eh!" Sorride ironico un'altra volta. "Sarebbe bello, certo. Siamo ancora giovani, non si sa mai... E poi ora preferisco fare l'autore!"
Fine del brevissimo incontro. Sta per iniziare il secondo atto di Lady Day, lo spettacolo che racconta a suon di flash back e swing la vita privata e la carriera di Billie Holiday, una delle regine della musica nera, impostasi sulle scene in un periodo, gli anni Trenta e Quaranta dello scorso secolo, in cui la divisione razziale era la regola.
Un musical old style, dove le parti recitate lasciano il posto alle numerose canzoni, scelte affinché si "incastrino" nella scena e portino avanti l'azione (le canzoni sono in inglese, ma come sempre, arrivano in aiuto i testi in italiano proiettati ai lati della scena). Qualche semplice ma efficace coreografia (di Roberto Salaorni), che fa il verso al charleston, contribuisce a rendere un po' meno minimalista e riflessivo lo show, che altrimenti sembrerebbe un lungo one woman show.
Lo spettacolo, come in Evita, comincia dalla fine: siamo in un dimenticato ospedale di periferia, dove Billie Holiday ha appena trovato la morte. Da lì parte il ricordo della sua fulminea carriera attraverso la voce narrante di Frank (Sinatra, allora agli inizi della sua carriera), interpretato da Massimo Reale che nel corso della storia assumerà via via altri ruoli.
Da improvvisata cantante nei jazz club newyorchesi, ad affermata stella per una casa discografica, Frank ci conduce per mano tra gli alti e bassi della vita privata di Billie, tra arresti per detenzione e uso di cocaina, i processi, la prigione. La verve e la splendida voce di Ami Stewart, che si muove e canta proprio come Billie, fanno tutto il resto, grazie alle canzoni note e meno note di Duke Ellington, Cole Porter, George Gershwin, Rodgers&Hart.
Piparo riesce a mostrarci i pensieri della bellissima e brava Amii/Billie (davvero calata nella parte) per regalarci un momento di teatro toccante ed emozionante: in preda agli effetti della cocaina, Billie trova riflessa allo specchio, invece che la sua immagine, quella del suo alter-ego Fletcher (Timothy Martin), un personaggio di fantasia che affiancherà la cantante nelle sue spesso sbagliate scelte. In una canzone piena di pathos, struggente e malinconica (Strange Fruit, di Lewis Allan), sta tutta la parabola discendente di una tormentata star dello swing, minata dalla droga e dai labili affetti, ma pur sempre disincantata e in qualche modo ottimista.
Lo show funziona a pieno regime quando lo swing dilaga in scena, supportato da una band dal vivo che si lascia andare ad improvvisazioni solistiche notevoli (ottima la direzione di Emanuele Friello) e che si sposta dallo spazio allestito nelle prime file della platea (dove gli spettatori siedono ai tavolini di un jazz club, sorseggiando champagne ed entrando come vere e proprie comparse nello spettacolo) alla ribalta del palcoscenico. Paradossalmente, ma forse è ancora una questione di rodaggio, si avverte una netta caduta di ritmo durante l'inedita All the men in her life, scritta appositamente per lo show e interpretata senza troppa convinzione nel secondo atto da Frank/Massimo Reale; paradossalmente, perché la versione strumentale che chiude lo spettacolo, in un sorprendente momento in puro stile "come eravamo" e che doverosamente non sveliamo, funziona egregiamente.
Nel complesso, dunque, uno spettacolo "intimo" e godibile, con un ottimo uso delle luci (Marco Policastro) e - finalmente - un egregia regolazione del suono (controllato da Luca Finotti), che non sovrasta le voci ma, anzi, le valorizza. Perché, quando canta Amii Stewart, sarebbe veramente un delitto (senza nulla togliere agli altri, per carità). I costumi di Renato Geraci evocano efficacemente lustrini, piume e paillettes dell'epoca, così come le essenziali e funzionali scenografie di Giancarlo Muselli. Il foltissimo pubblico del "Rossetti" apprezza, e tributa al musical una lunga e sentita ovazione.

Francesco Moretti

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